Ricordo che ero seduto sul divano, nella vecchia casa dei miei. Saranno state le nove di mattina. Mentre guardavo televideo (televideo!) lessi che De Andrè era morto.
Era nato a Genova Pegli nel 1940. A febbraio. È stato secondo me il più grande italiano autore di canzoni di tutti i tempi. La misura di questa grandezza sono le immagini che ognuno di noi sente affiorare, a sentir nominare Bocca di Rosa, Il Pescatore, Marinella, Piero.
Poi, come dire, furono soltanto cose di bellezza assoluta: la Città vecchia, nella cui puzza e nel cui buio ognuno di noi ha desiderato passeggiare almeno una volta (io lo desidero ogni giorno); Khorakahnè, Creuza de mà, l’Indiano, Novecento, Anime salve. Su ognuno di questi lavori potrebbe aprirsi un seminario di più giorni. Creuza de mà è il Mediterraneo, semplicemente. Storia di un impiegato è quello che la Sinistra italiana non è riuscita a vedere e a capire, e per questo si consuma nella vecchiaia che conosciamo. L’indiano è –scusate- la colonna sonora di ogni mia escursione tra le campagne di qualsiasi territorio della Sardegna. Non posso passeggiare tra i cisti senza ripetermi il canto del servo pastore. Non posso immaginare un ovile sotto la neve senza sentire “se ti tagliassero a pezzetti”. Non posso guardare un camino acceso senza ascoltare, da qualche parte nell’anima, Hotel Supramonte. E poi c’è la lacrima nascosta di Franziska, il verso più erotico della letteratura italiana di sempre.
Era nato a Pegli, e in un certo senso non si era mai mosso da lì. Più che di un viaggiatore mi ha sempre dato l’idea del fuggiasco, del rifugiato, dell’anima schiava che si vuole salvare. Raccontava di luoghi senza nome, il modo migliore per raccontare la tragedia e la sacra bellezza di ogni singolo essere umano.
Ci ha lasciato mille eredità, Fabrizio De Andrè. Le ha riassunte in uno degli ultimi versi: può arrischiarsi a dire certe verità soltanto chi sa di raccogliere, in bocca, il punto di vista di Dio. È un monito, non certo un’ingiunzione.
Era l’11 gennaio 1999, dicevo. Cinque giorni prima era morta mia madre, dopo un anno di viaggi tra Cagliari e qui, che non vi sto a raccontare, ché c’è poco da capire. Ero seduto sul divano e successe che cinque giorni non mi bastarono per uscire da un lutto ed elaborarne un altro, così diverso per la mia distanza con chi se n’era andato.
Anche per questo per me De Andrè è come se non fosse morto mai.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
Da Mattarella a Zelensky passando per Sanremo.
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
Un rider non si guarda in faccia (di Cosimo Filigheddu)
Ciao a Franco dei “ricchi e poveri”. (di Giampaolo Cassitta)
La musica che gira intorno all’Ucraina. (di Giampaolo Cassitta)
22 aprile 1945: nasce Demetrio Stratos: la voce dell’anima. (di Giampaolo Cassitta)
Ha vinto la musica (di Giampaolo Cassitta)
Sanremo non esiste (di Francesco Giorgioni)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 18.022 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design