Un giovane è un giovane. Che sia bello o sia brutto, che abbia successo nella vita oppure no, un giovane è un giovane. Quando il giovane dice delle cose che impattano violentemente con la nostra morale, con i nostri valori generazionali, qualche perché ce lo dobbiamo porre. Cercare di capire se è la boutade del momento, se ci troviamo di fronte ad una scapigliatura momentanea, ad una eccezione che non fa statistica, oppure, piuttosto, se c’è un dato significativo da considerare, una perdita di valori sulla quale ragionare. Per anni abbiamo fatto autocritica: viziamo troppo i nostri figli. I figli del benessere non hanno più interessi, sono svogliati, coltivano distrattamente le loro passioni, giustificati dall’ansia derivante dallo stare in un mondo sempre più competitivo e privo di certezze. La retorica sui giovani d’oggi spiega che loro, i giovani, non sanno più fare i sacrifici. Che è la stessa cosa che dicevano di noi la generazione che ci ha preceduto. E può darsi che il benessere abbia creato un “trend”, una tendenza verso l’esclusione dal sacrificio. Per cui ogni generazione ha sempre meno voglia di fare sacrifici, perché non è stata “allenata”. L’equazione “sacrificio uguale risultato” sembra aver perso credibilità. La ricerca della scorciatoia verso il successo o il posizionamento sociale sembra essere preferita. Ci sono tanti modi per riuscire, che bisogno ho di farmi il mazzo? La cultura occidentale, sempre più legata ad una immagine piatta e vitrea della rappresentazione sociale, dove il paradigma economicistico pare essere l’unico davvero significativo, perde per strada simboli e valori profondi. Ma queste sono cose che sappiamo. Tuttavia, quella dichiarazione, quella sbarbatella tremolante al concorso di miss, mi ha fatto riflettere su una sorta di paradosso. Abbiamo privato i nostri giovani non solo dei sacrifici, ma dell’idea stessa che il sacrificio possa esistere. Sul piano antropologico, il sacrificio rappresenta un passaggio fondamentale della crescita e della maturazione di una persona. Se tu privi un giovane di una esperienza sacrificante, non stai allevando una persona completa, in grado di affrontare le asperità della vita. Nelle popolazioni tradizionali questo esercizio al sacrificio è codificato in dei riti che gli adolescenti devono affrontare, denominati, appunto “riti di passaggio”, spesso delle prove di coraggio, o di sopravvivenza in ambienti ostili. Nelle culture modernizzate sopravvivono in forme confuse, oppure deformate dal consumismo, oppure esplodono in tensioni incomprensibili, proprio perché non codificate, si pensi al vandalismo. Sono bisogni antropologici, ovvero impulsi che l’evoluzione ha conservato nel nostro organismo nel corso dei millenni e più. Nelle culture modernizzate, dominate dalla tecnologia e dal consumismo, la vita diventa un bene da proteggere, più che da esercitare. E’ il risultato della alienazione dell’uomo dal ciclo naturale delle cose. La trasformazione in genitori iperprotettivi comporta la difesa di un bene con una visione statica, lineare, della vita. La dialettica tra al vita e la morte, un tempo circolare, diventa lineare. Vita e morte, nella cultura moderna, prescindono. Ora, lo so che può sembrare assurdo. Ma il messaggio di quella imberbe, balbettato inconsapevolmente, a me pare una richiesta di aiuto. Fateci capire come va il mondo, come va il mondo vero, quello reale, e non quello virtuale, vitreo e patinato. Che stiamo crescendo pallidi, deboli e ciechi. Dateci qualche bel ceffone morale, qualche ostacolo, qualche bel percorso di guerra da fare, qualche pignatta da lavare e scrostare, qualche masso da spostare. Che ne abbiamo bisogno.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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