È stata la prima ad allontanarsi dalle tante donne siciliane che hanno assecondato la mafia. Lei ha fatto un passo avanti rispetto a quelle che a lungo sono state silenziose custodi del codice mafioso o anche vittime dolorose di delitti disumani e, in entrambi i casi, il loro silenzio le ha rese conniventi. Nessuno ha visto e nessuno sa niente, è su questo che poggia la mafia: sull’omertà.
Ma, nonostante tutto fosse contro quella donna, la società, il paese, gli schemi convenzionali consolidati, la mafia di cui anche lei stessa era stata parte, decise di combattere intrepidamente per amore di quel figlio crivellato di colpi. Sangue del suo sangue. È Serafina Battaglia, la vedova con la P38, la prima pentita di mafia ed è grazie a donne come lei che si è incominciato a capire che la criminalità organizzata non fosse invincibile.
La sua storia comincia nel 1960, quando la mafia e Serafina sono coinquiline. Dopo aver lasciato il marito, ha un nuovo compagno, Stefano Leale, commerciante e piccolo boss con cui spartisce i segreti di Cosa Nostra fino a quando Stefano diventa uno di quei 4 cadaveri della strage di Godrano. Uno dei tanti episodi della guerra fra clan che presto avrebbe bagnato di sangue le strade di Palermo. Serafina si veste di nero e piange il suo uomo senza una parola. E siccome il tempo del lutto è lungo quanto quello della vendetta, sulla scorta del consolidato protocollo d’onore, chiede a suo figlio Salvatore di restituire il servizio, spingendolo a compiere ciò per cui era stato educato: vendicare la morte.
Il ragazzo, dapprima incerto e titubante, si convince a regolare i conti ma il suo attentato, contro Vincenzo e Filippo Rimi, non raggiunge i mandanti e la reazione violenta non tarda ad arrivare: Totuccio viene ucciso.
La morte del figlio è ciò che fa scattare un violento cambio di ruolo perché Serafina, donna cresciuta all’interno della mafia e abituata a conviverci, è titolare di vendetta: educa il proprio figlio a compierla ma, nel momento in cui questo viene ucciso, l’unica rappresaglia che ha a disposizione è quella di dare il suo contributo alla giustizia.
C’è un proverbio sardo che recita: “Sa morte de unu maridu ti nche ghetat sa domo, ma sa de unu fizu ti nche ghetat su coro” ed è proprio quel cuore ridotto in brandelli che la spinge ad affrontare ciò che fino a poco tempo prima accettava in silenzio.
Insorge e si ribella con una forza smisurata, va a parlare col giudice istruttore Cesare Terranova, gli vomita sulla scrivania i nomi dei responsabili degli omicidi del suo compagno e di suo figlio e, più di ogni altra cosa, racconta i segreti di famiglia che avvolgono Cosa Nostra. Lo investe con la sua mole di informazioni preziose ma fatica a trovare un avvocato che il giornalista Mario Francese, de Il giornale di Sicilia, riuscirà invece a procurarle perché ha capito che lei non ha paura e vuole arrivare fino in fondo.
In tribunale catalizza l’attenzione di tutti: semicoperta da uno scialle nero che le arriva fin sopra la testa, estrae dalla borsetta il fazzoletto macchiato del sangue di suo figlio e implora genuflessa quella giustizia nella quale finalmente identificare la sua vendetta. Si rivolge al banco degli imputati, li denigra, li offende e li ricopre di sputi.
Invece quella vendetta, di cui ha disperato bisogno per diluire il dolore del lutto, non arriva: il 13 febbraio 1979 la corte d’assise assolve gli imputati per insufficienza di prove. Serafina fa l’unica cosa che le resta da fare: si chiude in casa, con una P38 sempre vicina per paura di essere uccisa. Morirà venticinque anni dopo sola e dimenticata.
Però la sua coraggiosa scelta, a distanza di tempo, riesce a sortire degli esiti positivi. Altre donne hanno infatti intrapreso e ricalcato la battaglia perduta da Serafina, giungendo a sentenze che finalmente non hanno cancellato le condanne e che hanno fatto germogliare l’idea che lo strumento per difendersi non potesse essere una P38 da tenere accanto. Ma che l’unica arma possibile fosse la giustizia.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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