La Mafia Siciliana, oggetto di indagini storiche e sociologiche già dalla fine dell’Ottocento, divenne “Imputato” in un processo penale solo negli anni Ottanta del Novecento, grazie a un pool di magistrati tra cui ricordiamo Antonino Caponnetto, Giuseppe Ayala, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Per la prima volta la Mafia veniva intesa e percepita come un sistema.
Il cosiddetto Maxiprocesso iniziò trenta anni fa esatti, e si concluse il 30 gennaio del 1992. Quattro mesi dopo, Falcone veniva assassinato.
Si trattò di un’operazione mastodontica, che mobilitò centinaia di persone tra giudici, avvocati, imputati, forze dell’ordine, giornalisti.
Le rivelazioni di un pentito, Tommaso Buscetta, raccolte a partire dal 1983 da Giovanni Falcone, tolsero il tetto a una catacomba immensa e fittissima, all’interno della quale nessun estraneo era mai entrato e dalle profondità della quale, come in un buco nero, non era mai fuoriuscito nulla. Buscetta, mafioso sconfitto dall’ascesa violenta dei Corleonesi, rispose loro con un’arma che si rivelò molto più letale di qualsiasi altra usata in precedenza per i regolamenti di conti: la giustizia. Questo gli permise di vendicarsi di avversari che, sul terreno tradizionale, non avrebbe mai potuto sconfiggere. Si può pensare dei pentiti quello che si vuole, e si può dubitare della sincerità di certi pentimenti. Quello che però non si può nascondere, è che senza Buscetta, Epaminonda, Mannoia, Contorno, Mutolo, Di Matteo, Spatuzza ecc, l’Italia avrebbe oggi problemi più grossi di quelli che ha.
Di quella stagione ricordo molto bene la coda, quella che si portò via tra gli altri Falcone, Borsellino e le vittime di Via dei Georgofili. Il pomeriggio del 23 Maggio del ‘92 ero a Pisa e sul basamento del monumento a Garibaldi lessi -in un cartello improvvisato da qualche studente con un fondo di scatolone e un pennarello- che “mezz’ora fa il giudice Giovanni Falcone è stato assassinato dall’unica cosa che in Italia funziona ancora: la Mafia”.
Mi scappò da piangere solo due volte, per i fatti in questione. La prima volta quando un’edizione straordinaria del TG1 fece vedere le immagini di Riina, appena arrestato, in manette vicino all’elicottero dei Carabinieri. Ero solo a casa e cacciai un urlo che neanche al gol di Grosso nella semifinale Italia-Germania del 2006. La seconda volta ero sempre a Pisa, sul balcone a casa di amici, con lo sguardo in direzione di Firenze, poche ore dopo l’attentato di Via dei Georgofili. Per la prima volta, ebbi fisicamente paura della mafia.
Io credetti a queste parole scritte sul cartello ai piedi di Garibaldi, ventiquattro anni fa. Oggi non ci credo più, perché proprio la morte di Falcone indicava in modo chiaro, già da allora, che anche la Mafia può avere paura. Quello che però ho capito è che, più grande di Cosa Nostra è il contesto in cui ha potuto operare e su cui, pur ridimensionata, continua a esistere.
Quel contesto è l’Italia presa nella sua quotidianità. Una cosa per cambiare la quale, credo, occorrerà ancora molto tempo.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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