Sotto il lavandino della mia piccola cucina, sopra una latta d’alluminio da cinque litri d’olio di Alghero, mia moglie ha abbandonato una tartaruga prosciutto e formaggio, avvolta in un’attillata pellicola trasparente. Gliel’ha ceduta la titolare del negozio dove compra le crocchette per i gatti. Doveva essere la merenda della commerciante, invece nessuno l’ha mangiata e a fine giornata era diventata buona per i maiali. È utile precisare che il maiale non sono io, ma quelli di una familiare che li alleva: l’avanzo era destinato a loro. Il porco non sono io però ogni volta che lo sportello del lavandino si apriva, scoprendo quel panino da cui debordava un millimetro di imbottitura, dovevo contenere il famelico impulso di mettergli le mani addosso, liberarlo dall’involucro e addentarlo senza pietà. Provavo per quel panino un’attrazione quasi sessuale. Ho appena finito di leggere “La Tregua” di Primo Levi. Forse sono cose che si dicono a caldo, prima di aver lasciato evaporare la vampata dell’emozione, però io non ricordo di essere mai stato rapito tanto da una testimonianza raccolta in un libro. Neppure “Se questo è un uomo” mi aveva coinvolto con la stessa intensità. Bisognerebbe leggere ogni libro come se si avesse l’autore di fronte e la storia ce la stesse raccontando lui. Con la stessa educazione che si deve ad una persona seduta dall’altra parte del tavolo. Per tutta la lettura, durata due settimane, a me è sembrato di aver davanti la figura minuta, occhialuta e barbuta dell’autore. A fine gennaio del 1945, i russi entrarono ad Auschwitz e il partigiano ebreo torinese Primo Levi, chimico di 26 anni, viene liberato, sopravvissuto alla strage per fortuna, ingegno e casualità. Inizia un omerico viaggio in treno verso la liberazione definitiva: il ritorno a casa per migliaia di prigionieri reclusi nel campo polacco. Moltissimi sono italiani, buona parte dei quali caricati a bordo durante il percorso e provenienti dalla Romania, dove si erano accasati dopo la ritirata russa dell’Armir.
Ma è un viaggio senza senso che inizialmente procede in direzione opposta alla meta finale, inoltrandosi prima nella Russia bianca, poi picchiando verso l’Ucraina, infine virando verso occidente e attraversando Moldavia, Romania, Ungheria e Austria, prima di scavalcare il Brennero. Un viaggio che dura sei mesi. Primo – consentimi di darti del tu, anche se non ci siamo mai conosciuti – annota tutto nella mente, mentre svolge le funzioni di infermiere al servizio di un medico. Scriverà le memorie di quel viaggio tra il 1960 e il 1961, calibrando le parole con i dosaggi perfetti di un chimico. “Sono chimico”, risponde quando gli chiedono cosa faccia. Non “un chimico” ma “chimico”, senza l’indeterminativo, come se volesse sottolineare quanto lui fosse parte di quella mescolanza di sostanze oggetto del suo studio. Primo Levi è chimico anche nella scrittura. Ci ho messo due settimane perché quando si legge un libro come “La Tregua” trovo che il lettore di oggi abbia molti più mezzi per capirlo di uno di qualche anno fa, e sarebbe colpevole non usarli. Nella cronologia del mio Google Earth sono elencate le seguenti ricerche: Bierun (Polonia), Katowice (Polonia), Oswiecim (Polonia), Odessa (Ucraina), Rzeszow (Polonia), Staryje Doroghi (Bielorussia), Iasi (Romania), Ploiesti (Romania), Brasov (Romania), Alba Iulia (Romania), Curtici (Romania). Sono alcune delle tappe del viaggio. In ognuno di questi luoghi, c’era un campo accoglienza con cibo e letti e comprensione per gli scampati. Ogni volta, cercavo queste località sulla mappa dello smartphone e una foto su streetview, poi immaginavo di porgerla a Primo, davanti a me, per sentire da lui se riconoscesse il posto. Sono andato a cercare se in rete si trovasse qualcosa su questo Cesare, uno dei compagni più vicini a Primo durante il viaggio. Se esistesse, se fosse davvero come lo aveva descritto, romano ruspante cresciuto a Porta Portese, avvezzo ad ogni raggiro e truffa, sempre pronto alla fuga. Certo che esisteva. Ma non si chiamava Cesare, si chiamava Lello Perugia ed era un partigiano. È mancato nel 2010, dopo essere scampato ad Auschwitz quando la morte sembrava ormai averlo segnato. La sua capacità di adattarsi alle situazioni – di gran lunga la migliore garanzia di sopravvivenza all’inferno – lo metteva a suo agio in ogni situazione. A Staryje Doroghi, la Casa Rossa, il convoglio rimase fermo in un grande campo per tutta l’estate. Cesare vendeva o barattava con altri beni il pesce di fiume della razione quotidiana, ma barava. Con una siringa presa in prestito dall’infermeria, iniettava acqua nei pesci per falsarne stazza e peso e strappare migliori condizioni di vendita, specie ai soldati russi che transitavano dal campo tornando in patria: acquirenti pieni di rubli e che, quando si sarebbero accorti di essere stati coglionati, sarebbero stati già troppo lontani per reclamare. Il campo era ai margini di una foresta. E dentro quel bosco fitto ho letto il ritratto umano che più mi ha impressionato. Ritratto di vinti che furono invasori e complici di assassini, non di vincitori. Primo racconta di due donne, ausiliarie della Wermacht, rimaste indietro nella ritirata tedesca dalla Russia. Le due donne si erano rifugiate in mezzo alla foresta, per nascondersi agli occhi del mondo, come se dovessero rispondere in prima persona di tutte le colpe della genia cui appartenevano. Vivevano di piccoli furti notturni e prostituzione. Raccontò, Primo, che ogni italiano del campo aveva soddisfatto le proprie esigenze sessuali in quella baracca abitata dalle due tedesche sbandate, in una carnale giravolta della storia.
Una volta, durante un lungo trasferimento in Ucraina, Cesare sfidò le pallottole degli abitanti di un villaggio pur di barattare sei piatti di terracotta rubati con una gallina, perché quella sera sentiva un bisogno insopprimibile di fare festa.
Quando Primo tornò a Torino, nel mese di ottobre, continuò a mangiare voracemente tutto il cibo che gli si presentasse davanti. E continuò a camminare a testa bassa, come faceva al lager, nella speranza che sul pavimento fosse qualche briciola. Tutto questo è iniziato ottant’anni fa, il 1 settembre 1939. Basta aprire un libro per ricordarsene e riflettere appena su quel che siamo stati e su quel che abbiamo sofferto. Magari anche per vincere il senso di colpa, se ti viene voglia di sbranare un panino destinato ai maiali.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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