La mattina del 1 gennaio 1739 il tenente Bouvet non era esattamente di buonumore. Il suo capodanno lo aveva festeggiato in mezzo al mare, al comando delle due navi Aigle e Marie della Compagnia delle Indie orientali. La Compagnia gli aveva affidato una missione esplorativa nell’Atlantico meridionale per conto della Francia, come si usava a quel tempo. Tutti uomini, avvisaglie di epidemia a bordo e poca voglia di festeggiare. Quando scrivo in mezzo al mare, intendo dire che la riva più vicina era a circa duemila km di distanza, per essere più precisi il corno meridionale dell’Africa. Siccome Bouvet era pagato per esplorare, lui esplorava con il naso per aria, sfidando il gelo di quelle latitudini. E quel 1 gennaio del 1739 i suoi occhi intercettarono, in mezzo al nulla, una specie di escrescenza di terra, avamposto di un’isola o di qualcosa di più grande di un’isola. Non si poteva sbarcare, sull’Isola, perché era circondata da uno spesso zoccolo di ghiaccio. Bouvet osservò e passò oltre, ma segnalò l’avvistamento sui suoi diari di bordo, ipotizzando che si trattasse della costa settentrionale dell’Antartide. Presumo comunque che non sia stato particolarmente entusiasta della sua scoperta, dal momento che a quella sporgenza di terra intravista tra la nebbia affibbiò il nome di “Capo della Circoncisione”. Se osservate il dettaglio su Google Earth capite il perché. Storici reputati sostengono che quel nome, a Bouvet, sia venuto in mente sentendo l’esclamazione del marinaio sulla torretta d’avvistamento: “E quello, che cazzo è?”, sarebbe scappato detto al mozzo, sorpreso da quello scoglio capitato dopo giorni e giorni di esasperante navigazione in mare aperto. Comunque, nei decenni seguenti parecchi navigatori sfiorarono l’Isola e, nel 1825, una spedizione inglese vi sbarcò per la prima volta, quando ormai aveva preso il nome del tenente Bouvet. Da quell’anno il Regno britannico si ritenne proprietario del posto e nessuno ebbe nulla da ridire, perché a chi diavolo potevano interessare 50 chilometri quadrati di roccia vulcanica in culo al mondo, coperti da ghiaccio e nebbia per buona parte dell’anno? A nessuno. Anzi, no. Nel 1927, sull’isola di Bouvet sbarcò una spedizione norvegese, non chiedetemi per fare cosa perché le scarse tracce sulla missione trovate in rete non lo chiariscono. Comunque, i norvegesi vi restarono per un mese e ne rivendicarono il possesso per il loro Stato. Gl inglesi, che non sapevano che farsene, dissero sì, prendetevela pure. E così, dal 1930 l’Isola di Bouvet è una provincia della Norvegia, chiamata Bouvetøia. Nel 1959, Bouvetøia venne visitata anche da un italiano: lo scienziato, scrittore, filologo e navigatore Silvio Zavatti, il quale contava di installarvi una stazione di monitoraggio atmosferico. Ma il governo italiano non trovò i 20 milioni di lire necessari per realizzare il progetto. Eppure di questo scoglio lontano dagli occhi degli uomini la storia ha parlato, negli ultimi cinquant’anni. La prima volta nel 1964, quando una nave scientifica inglese sbarcata sulla Bouvet per degli studi geologici scoprì sull’Isola i resti di una scialuppa abbandonata, con resti di rifornimenti ancora a bordo. Nessun corpo umano venne ritrovato e nessuno mai chiarì il mistero, nel senso che non si è mai saputo a chi fosse appartenuta quella scialuppa. Poi, nel 1979, il satellite americano Vela fotografò nei pressi della Bouvet i bagliori di una potente esplosione. Siccome quel satellite era specializzato nella localizzazione di esprimenti nucleari, si ritenne che quel lampo in mezzo all’oceano fosse, appunto, il risultato di un test atomico. Nessun Paese, però, ammise reponsabilità, costringendo l’amministrazione americana di Jimmy Carter a nominare una commissione d’inchiesta per approfondire la natura del fenomeno. Il mistero non venne risolto, ma l’ipotesi più accreditata è che l’esperimento fosse stato condotto congiuntamente da Sudafrica e Israele. Due Paesi strettamente alleati degli americani, cosicché si risolse il guaio dicendo che era stato il satellite, vecchio e con poca manutenzione, ad avere preso un abbaglio. Oggi sull’Isola non ci vive nessuno – non ci ha mai vissuto nessuno, per essere chiari – e c’è solo una stazione meteo norvegese, attiva dal 1977. Però continua a portare il nome di quel tenente della Compagnia delle Indie, che la scoprì senza volerlo andando quasi a sbatterci sopra.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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